Uno dei punti importanti del dibattito fra i paesi più industrializzati, il cosiddetto G8, riguarda l’ambiente e in particolare il comportamento dei vari paesi rispetto alle azioni che si propongono di limitare il riscaldamento globale. I termini del dibattito sono noti: varie sostanze chimiche, immesse nell’atmosfera dalle attività umane, produttive e di consumo delle merci, a cominciare dall’uso delle fonti energetiche, fanno lentamente ma inesorabilmente aumentare la frazione di energia solare che l’atmosfera trattiene al suo interno rispetto a quella che la Terra irraggia di nuovo verso lo spazio interplanetario, con conseguente lento graduale riscaldamento dell’atmosfera, proprio come avviene nelle serre. Le sostanze che fanno aumentare l’energia intrappolata nell’atmosfera e provocano l’aumento della sua temperatura sono l’anidride carbonica, gli ossidi di azoto, idrocarburi clorurati e varie altre; per rallentare il fenomeno occorre porre dei limiti alla emissioni di tali sostanze (come prescrive il “protocollo di Kyoto”) da parte della produzione e del consumo delle “attuali” fonti di energia e merci. I potenti interessi che verrebbero disturbati da tali limitazioni hanno per anni orchestrato delle campagne basate sulla tesi: “Se un riscaldamento globale è in corso non dipende da attività umane”, una tesi che, col passare del tempo, si è rivelata insostenibile, nonostante la diligenza degli “scienziati” negazionisti. Adesso gli Stati uniti, che si oppongono alle prescrizioni degli accordi di Kyoto, sostengono che le limitazioni nella produzione e nei consumi necessarie per diminuire le emissioni dei gas responsabili dell’”effetto serra” sarebbero disastrose per l’economia americana. Una analisi più attenta mostra invece che “solo” una modificazione dei cicli produttivi e delle merci, nel senso di diminuire l’inquinamento atmosferico e i mutamenti climatici, è utile e positiva per l’economia dei singoli paesi e mondiale. Cominciamo dai paesi industriali. Sempre, nella storia, le società industriali hanno cambiato i processi produttivi adottando soluzioni che consentivano di ottenere le stesse merci e gli stessi servizi consumando meno materiali e meno energia. Se si esaminano anche oggi i cicli produttivi che permettono di ottenere carta e patate, acciaio e servizi di mobilità e di telecomunicazioni, si vede che sono già note soluzioni alternative che consentirebbero da una parte di diminuire proprio le emissioni di “gas serra”, e dall’altra parte di aumentare l’occupazione di tecnici, scienziati, operai e agricoltori. Tre soli esempi: l’innovazione nei mezzi di trasporto verso minori consumi di energia, l’innovazione verso il riciclo delle merci usate, l’uso di fonti energetiche rinnovabili, fra cui prodotti e sottoprodotti agricoli e forestali. E’ evidente che alcuni detentori di tecnologie e di materie prime (il petrolio in primo luogo) sono disturbati nei loro affari attuali e sono quelli che ostacolano qualsiasi cambiamento, mentre quelli che trarrebbero vantaggio dal cambiamento sono troppo disinformati o timidi o timorosi. Quanto siamo lontani dalle conclamate richieste di innovazione: dove sono nelle scuole, nelle Università, nelle fabbriche ? Diverse sono le condizioni dei grandi paesi emergenti nel campo industriale e dei consumi: oltre duemila milioni di cinesi, indiani e altri asiatici i quali si presentano come nuovi produttori e consumatori di merci e come venditori di merci a basso prezzo proprio grazie all’uso intensivo di fonti energetiche e materie inquinanti che contribuiscono ad accelerare il riscaldamento globale in atto. La richiesta di più equi rapporti commerciali ha ben poca credibilità se i paesi occidentali, per primi, edificano il proprio successo economico rovinando le condizioni ambientali planetarie. Solo una coraggiosa politica economica e merceologica dei paesi industrializzati può chiedere a quelli emergenti di accettare vincoli nella qualità anche ecologica dei loro processi e prodotti. I limiti nelle emissioni inquinanti sarebbero attuabili anche nei paesi emergenti se quelli di più antica industrializzazione fossero capaci di proporre merci e tecnologie alternative alle attuali inquinanti, che sono poi quelle che l’Occidente esporta proprio nei paesi di nuova industrializzazione. A maggior ragione come possiamo, noi occidentali, col nostro rifiuto a limitare il degrado della Terra, chiedere ai paesi poveri e poverissimi di non tagliare le loro foreste ? Per loro sono fonte di pur magri guadagni ma rappresentano, per l’umanità intera, il grande sistema biologico che, rigenerandosi continuamente con la fotosintesi, porta via dall’atmosfera almeno una parte dell’anidride carbonica che senza tregua i paesi industriali scaricano dai loro camini e dai tubi di scappamento. Gli investimenti per uno sviluppo umano che assicuri la conservazione del patrimonio vegetale e forestale, dove ancora esiste, dovrebbero essere il prezzo che dovremmo pagare ai paesi più poveri per rallentare i danni dei nostri errori merceologici ed energetici, come chiedono gli accordi di Kyoto.