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nebbia giorgio
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I rapporti fra attività umane e acque
L’analisi degli eventi che hanno interessato e interessano il pianeta mostra che molti fenomeni di deterioramento ambientale - inquinamento, erosione del suolo e delle spiagge, frane, alluvioni, eccetera - possono essere descritti sulla base del flusso di materia e di energia che attraversa una regione geografica ben definita. L'inquinamento delle acque, ad esempio, deriva dal fatto che i laghi, i fiumi, il mare sono usati come ricettacolo delle scorie del metabolismo umani e dalle trasformazioni delle merci usate da milioni di famiglie, dall'allevamento di milioni di animali, da migliaia di industrie e, in più, dal dilavamento dei concimi ad opera delle piogge che attraversano milioni di ettari di terre coltivate.
Per far diminuire l'inquinamento dei corpi idrici non basta costruire qualche depuratore delle fogne di alcune città: occorre modificare i processi produttivi di fabbriche, allevamenti e campi, anche distanti centinaia di chilometri, occorre modificare le merci consumate da milioni di persone che abitano nelle pianure e nelle valli, occorre pianificare gli insediamenti umani ubbidendo alle ineludibili leggi del moto delle acque.
Gli ecologi conoscono le complesse reti di rapporti che legano gli esseri viventi vegetali, animali, umani, con il territorio e con i corpi riceventi finali: l'aria, le acque interne, il suolo, il mare. Anche chi deve prendere decisioni sull’uso del territorio e sulle scelte economiche e merceologiche, però, deve conoscere dettagliatamente tali correlazioni e intervenire al livello giusto; altrimenti si sprecano denaro, risorse naturali, e non si ripara o migliora niente. Questi concetti cominciano a farsi strada, sia pure faticosamente.
La centralità del bacino idrografico
Ai fini di una politica del territorio l'unica dimensione geografica ed ecologica corretta e significativa è rappresentata dal “bacino idrografico”, limitato dallo spartiacque e, verso il basso, dal punto di immissione di un fiume in un altro bacino o nel mare; nel suo spazio avvengono tutti i fenomeni importanti dal punto di vista ecologico e pertanto anche economico. Si può immaginare di descrivere un bacino idrografico come una specie di grande "sacco", chiuso da una porta stretta e quasi puntiforme, attraverso cui ha luogo un flusso continuo in uscita di materia e di energia.
Nel "sacco" entrano, attraverso varie vie, l'acqua delle piogge e delle nevi e l'energia solare, ma entrano anche molti altri materiali, tutti quelli usati dalle attività antropiche presenti all'interno del bacino stesso. Le piogge disciolgono e trasportano verso il basso i prodotti dell'erosione del terreno. Questi in parte si depositano sul fondo del fiume, in parte vengono trascinati dall'acqua del fiume fuori dal bacino.
Dal trasporto di materiali solidi sospesi dipende la struttura dell'alveo del fiume, ma anche la struttura delle spiagge sia vicino alla foce del fiume --- se questo si getta nel mare --- sia a grande distanza. Le pianure alluvionali, talvolta fertili, sono state create dal trasporto di sostanze solide lungo i bacini idrografici; le spiagge crescono o si ritirano a seconda della quantità di materiali solidi trasportati dai fiumi.
L'estrazione di sabbia e ghiaia per edilizia --- l'estrazione, cioè, di "merci ambientali" di valore economico --- al di la' di certi limiti riduce il trasporto di materiali solidi verso il mare e fa regredire le spiagge; il materiale portato via dall'erosione dovuta al moto del mare è, così, maggiore di quello reintegrato dal trasporto fluviale. Nel bacino entrano le materie prime e le merci necessarie per i centri urbani e per le attività produttive --- dall’agricoltura, alla zootecnica, alle fabbriche: i mangimi per gli animali, i concimi per l'agricoltura, i carburanti per le città e le industrie, e le innumerevoli materie --- alimenti, carta, cemento, eccetera --- necessarie per la vita umana quotidiana.
Dal bacino idrografico esce, attraverso la "porta" che immette in un altro bacino o nel mare, l'acqua del fiume che contiene la risultante delle moltissime trasformazioni dei materiali che sono finiti nel bacino in seguito ai cicli ecologici e alle attività economiche. Escono, inoltre, anche alcune "merci" economiche: i manufatti delle industrie, gli animali destinati alla macellazione, i prodotti agricoli venduti all'esterno del bacino. Ma una parte, probabilmente la maggior parte, del risultato di tutte le attività umane e naturali resta dentro il bacino idrografico modificandone, più o meno rapidamente, i caratteri. Dentro il bacino idrografico finiscono tutti i rifiuti delle attività umane. Le materie presenti nei rifiuti solidi e liquidi immessi nel suolo, nelle falde sotterranee o nel fiume stesso finiscono, più o meno presto e piu' o meno modificate, nell'acqua del fiume che scende verso il basso. Nel suolo e nell'acqua del fiume hanno luogo complesse reazioni di trasformazione chimica e fisica. Le materie organiche dei rifiuti urbani e zootecnici e di molti processi industriali vengono in parte ossidate e mineralizzate e fuoriescono dal bacino idrografico con caratteristiche chimiche mutate. Le sostanze inorganiche e minerali in parte vengono trasformate chimicamente e in parte si depositano sul fondo dei fiumi.
Con abbastanza buona approssimazione si puo' dire che anche gran parte delle sostanze immesse nell'aria ricadono all'interno del bacino.
Lo spartiacque funziona in parte anche da barriera per i moti dell'aria.
Un bacino idrografico è interessato anche a flussi di energia, oltre a quello dell'energia solare in entrata e dell'energia re-irraggiata per via naturale. Il calore di rifiuto delle attività umane "riscalda" le acque e l'atmosfera. Il moto delle acque verso il basso ha inoltre un suo contenuto di energia potenziale che può assumere valori elevati: un flusso di acqua di un metro cubo al secondo che supera un dislivello di un metro ha, “dentro di se", disponibile ogni anno circa 90.000 kilowattore di energia.
Il flusso di tutti i fiumi italiani ha un "contenuto energetico" potenziale di circa 350 miliardi di kilowattore all’anno; di questi solo circa 40-45 miliardi di kilowattore sono ricuperati ogni anno come energia idroelettrica.
Il punto in cui l'acqua del fiume di un bacino idrografico si immette in un altro fiume o nel mare - la "porta" di quel "sacco" immaginario di cui si parlava prima - funziona in maniera analoga alla "dogana" dei confini politici. Si può perciò parlare di "esportazione" di merci ambientali --- acqua, sabbia, sostanze disciolte e in sospensione --- da un bacino ad un altro bacino o al mare. Nel caso dei fiumi internazionali --- Danubio, Reno, ma anche i nostri Ticino e Isonzo --- si ha una vera e propria importazione ed esportazione di acqua e di rifiuti da un paese all'altro, tanto che è stato necessario sviluppare una teoria economica e giuridica dell'inquinamento trans-frontiera.
Speranze e delusioni della “centottantatre”
La soluzione di molti problemi ambientali deve essere quindi cercata nell’amministrazione di un territorio sulla base di quanto avviene in ciascun bacino idrografico. Sfortunatamente i confini dei bacini idrografici non coincidono con quelli politici e amministrativi: il fiume è sempre stato, fin dai tempi più antichi, la più comoda e difendibile barriera militare e gli stati, grandi e piccoli, hanno stabilito i confini principalmente lungo i fiumi e piuttosto che lungo le creste delle montagne.
Forse la rivoluzione francese è stata la prima a riconoscere la centralità dei fiumi nel governo del territorio e a dividere il territorio francese in dipartimenti chiamati col nome del fiume principale (anche se i rispettivi confini in genere non coincidevano con quelli dei bacini idrografici) (1). Napoleone, quando ha trasferito in Italia il modello dei dipartimenti fluviali francesi, ha dato ai dipartimenti italiani i nomi dei fiumi (2), anche se ha in genere lasciato intatti i confini degli stati precedenti.
Poiché i confini delle regioni odierne coincidono spesso con quelli degli antichi stati, chi vuole ragionare in termini di bacini idrografici si trova di fronte a molti delicati problemi istituzionali e amministrativi.
Grandi speranze ha sollevato l'approvazione, nel 1989, della legge sulla difesa del suolo, "la 183" (ripresa dalla direttiva "sessanta" del 2000 dell'Unione europea), che, come è ben noto, stabilisce alcuni principi fondamentali, di rilievo costituzionale, dice il primo articolo. Il primo è che la pianificazione (usa proprio questo termine) territoriale, della difesa del suolo e della gestione delle acque, deve avvenire sulla base di unità territoriali geograficamente definite e ecologicamente sensate: appunto i bacini idrografici.
Il secondo è che, quando i confini dei bacini idrografici non coincidono con quelli amministrativi --- nella maggior parte dei casi --- le autorità amministrative (regioni e province) competenti per i territori dei vari bacini idrografici devono (dovrebbero), per ciascun bacino idrografico, prendere decisioni comuni, attraverso le “autorità di bacino” per i bacini di rilievo nazionale, attraverso "comitati di bacino" per i bacini interregionali, o altre strutture di coordinamento per i bacini o gruppi di bacini regionali.
La legge prescrive che le decisioni relative alla pianificazione territoriale devono essere basate su una preliminare indagine conoscitiva della situazione di ciascun bacino idrografico, redatta in conformità a quanto dettagliatamente prescritto da un decreto del gennaio 1992. Raccolta questa documentazione ciascuna autorità o ciascun comitato di bacino deve (dovrebbe, avrebbe dovuto) predisporre un "piano di bacino" contenente i programmi delle azioni da intraprendere per il rispetto delle finalità di "pianificazione, programma e attuazione", ben specificate dall'art. 3 della stessa legge 183: difesa del suolo e delle coste contro l’erosione, uso razionale e solidale delle acque, limitazione degli inquinamenti, eccetera.
Sulla base del piano di bacino dovrebbero essere indicati i finanziamenti necessari e l'ordine di priorità degli interventi secondo gli schemi previsionali e programmatici. I legislatori, nel lungo lavoro svolto negli anni 1987-89, soprattutto nella Commissione ambiente del Senato, avevano ben presenti i pericoli che gli enti locali potessero contrastare le finalità della legge per difendere il “possesso” del proprio pezzo di territorio e, soprattutto, la gestione dei fondi per le opere da fare nel pezzo di bacino idrografico che ciascun ente locale ritiene che gli "appartenga".
Proprio il contrario di quanto stabilisce la legge, ispirata invece proprio al principio della solidarietà nell'ambito di ciascun bacino e fra bacini idrografici vicini, uniti da considerazioni fisiche, geografiche e ecologiche, principio di solidarietà spezzato dall'arbitraria divisione dell'Italia in regioni i cui confini, come si è detto, sono ancora quelli dei principati in guerra e dell'Italia pre-unitaria.
La situazione è così arbitraria, dal punto di vista geografico ed ecologico, che alcuni hanno suggerito di ridisegnare i confini delle attuali regioni facendoli coincidere con quelli dei bacini idrografici dei fiumi in ciascuna contenuti. Si tratta, insomma, di superare l'errato senso di "appartenenza" ad una regione o provincia amministrativa per creare un nuovo senso di "appartenenza" al fiume e al bacino idrografico. Occorre sviluppare nel "popolo" di ciascun bacino idrografico un senso di consapevolezza della proprietà collettiva del relativo territorio e delle relative acque per ciascuna unità che va dalle sorgenti alla foce del fiume e di ciascun affluente, che comprende le valli e le coste più vicine; ciascun cittadino di tale "popolo" ha interessi ed è legato da solidarietà comuni, indipendentemente dal fatto che sia amministrativamente "sotto" una regione o l'altra, una provincia o l'altra.
La legge 183 avrebbe potuto offrire la più grande occasione di una genuina riforma istituzionale basata sull'unica cosa che conta, la salvaguardia del territorio, la difesa della salute, l'approvvigionamento idrico, la lotta all'inquinamento, la lotta alle frane e alle alluvioni. Condizioni tutte che sono l'unica vera premessa ad un reale sviluppo economico e all'aumento dell'occupazione. In questo ambito è perfettamente legittimo, anzi auspicabile, che, in spirito di solidarietà e di piano, un bacino idrografico "esporti" acqua in un altro bacino idrografico. Sempre, però, sulla base di decisione concordate fra le autorità dei singoli bacini e sulla base di accurate informazioni e di precisi piani.
I nemici della legge 183
La legge 183 e i provvedimenti collegati sono rimasti, a dodici anni di distanza, praticamente inattuati. Sono state costituite autorità di bacino, sono stati previsti investimenti e spesi soldi; ma le autorità e i comitati non hanno fatto né le indagini conoscitive, né dei veri piani di bacino.
Del fallimento dell’applicazione della legge sulla difesa del suolo fanno fede le continue devastanti frane e alluvioni, gli insediamenti autorizzati o tollerati in zone idrogeologicamente fragili e pericolose, il perdurare di disastrosi inquinamenti delle acque interne e del mare, l'avanzata dell'erosione delle spiagge. Non c'è bisogno di dire che la gestione e la pianificazione delle acque sono la premessa essenziale per una corretta politica della difesa del suolo contro le frane e le alluvioni che non sia limitata, come piace a tanti, al puro e semplice innalzamento degli argini, alla cementificazione del corso dei torrenti e dei fiumi: una politica che governi e impedisca l'assalto speculativo alle rive e alle golene dei fiumi, il prelevamento selvaggio delle sabbie e ghiaie. L’opposizione e l’inerzia dei tanti nemici della legge 183 va cercata, a mio parere, nel fatto che l'obbligo, previsto dalla legge, di pianificare per bacini idrografici, impone alle autorità locali di rinunciare ad una parte dei propri poteri e di decidere, insieme ad altri, ciò che può essere fatto o non deve essere fatto in un bacino idrografico comune.
Sono così solerti i nemici della 183, che, con la scusa di far fronte ai danni provocati dalle continue frane e alluvioni, gli enti locali sono riusciti ad ottenere dal governo l’autorizzazione a procedere a piani “stralcio” per interventi e spese su piccoli pezzi dei vari bacini idrografici, spezzando l’unità dell’amministrazione secondo i principi originali della stessa legge.
Non solo: le regioni e la potente corporazione delle aziende acquedottistiche, sono riusciti a fare approvare una legge (n. 36 del 1994), che autorizza i prelievi delle acque secondo criteri aziendalistici ed “economici” che con i bacini idrografici niente hanno a che fare.
La legge 36 comincia con una nobile dichiarazione di principio di alto valore etico e politico: "Tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata e utilizzata secondo criteri di solidarietà". Dopo altri due o tre articoli di valore generale, si passa subito al concreto, cioè alla spartizione delle acque fra alcuni soggetti denominati "servizi idrici", ma che ben presto si intuisce essere costituiti da aziende che accorpano gli innumerevoli acquedotti preesistenti.
La prima contraddizione con i principi della legge 183 si ha nell'articolo 8 che al primo comma dice: "I servizi idrici sono riorganizzati sulla base di ambiti territoriali ottimali delimitati secondo i criteri seguenti", poi elencati.
Tutto il discorso successivo riguarda la suddivisione del territorio, da parte delle Regioni, in funzione delle necessità delle aziende acquedottistiche esistenti o future. L'esistenza dei bacini idrografici, delle relative autorità e dei relativi piani non può, ovviamente, essere ignorata, ma passa in secondo piano rispetto alle necessità delle aziende acquedottistiche.
Si sono così viste suddivisioni dei vari bacini idrografici in "ambiti territoriali ottimali" ai fini della gestione acquedottistica, al di sopra e in genere in assenza dei piani di bacino. E non fa meraviglia perché la suddivisione in ambiti ottimali è importante ai fini delle aziende e della loro privatizzazione, mentre nessuno ha interesse ad accettare e imporre i vincoli che un piano di bacino richiederebbe. Una sola cosa è, a mio parere, certa: che un governo democratico delle acquee del territorio (compresa difesa del suolo, lotta all'inquinamento, eccetera) è possibile soltanto se le Regioni e tutti gli altri organi dello stato, compresi quelli dei ministeri centrali, cominciano a rispettare quanto disposto dalla legge 183.
Non basta la fictio iuris di creare delle autorità di bacino che tali sono solo di nome; non basta incollare vecchi piani di opere pubbliche, fatti con ben altre finalità, e far passare questo collage come piano di bacino. La redazione di indagini sullo stato del bacino e la redazione dei piani di bacino sarebbe una grande occasione per una mobilitazione democratica e intellettuale delle forze dell'Università e della cultura, al di fuori dei comitati di affari e delle imprese che finora, grazie alla distrazione e alle compiacenze dei pubblici amministratori, hanno fatto la politica del territorio e delle acque in tante regioni.
L’acqua come merce
L’istituzione e il funzionamento di strutture politico-amministrative che, nell'ambito di ciascun bacino idrografico, accentrino, come prescrive la legge 183, tutte le attività decisionali relative all'approvvigionamento delle acque per fini potabili, industriali e irrigui, è essenziale anche per superare gli equivoci grazie ai quali alcuni acquedotti hanno fornito acqua, oltre che alle città, anche alle industrie e all'irrigazione, con una grande confusione di gestione e di tariffe, per meglio coordinare le attività relative alla gestione delle acque usate, in vista anche del loro parziale ricupero, oltre che della depurazione delle acque immesse nell'ambiente.
Il coordinamento fra i diversi usi dell'acqua dovrebbe anche superare gli inammissibili squilibri per cui certi usi irrigui dell'acqua sono a costo praticamente zero, grazie a un iniquo sistema di "concessioni" a prezzi irrisori a enti di bonifica, e per cui una risorsa, un bene civile e una merce essenziale come l’acqua viene pagata a prezzi così diversi nelle varie parti d’Italia.
Questa situazione iniqua viene confermata dall'art.13 della legge 36/1994 --- purtroppo confermata a sua volta dall'orientamento dell'Unione europea --- secondo cui le tariffe dell'acqua debbono essere stabilite sulla base della copertura dei costi di gestione. In Italia, nel Mezzogiorno e nelle Isole, dove l’acqua è disponibile in minore quantità, i costi di approvvigionamento idrico sono inevitabilmente superiori per le aziende acquedottistiche; per quanto possano essere introdotti meccanismi compensativi per attenuare le differenze tariffarie, i cittadini, gli imprenditori e gli agricoltori delle regioni meridionali e delle Isole continueranno a pagare l'acqua di più di quanto viene pagata in altre zone d'Italia, un pesante freno per il turismo, per nuovi insediamenti industriali, per l'agricoltura in quel Mezzogiorno che, a parole, tutti dicono di voler aiutare.
Per ristabilre una situazione di giustizia sarebbe necessario che le aziende acquedottistiche rendessero espliciti i propri conti in modo da rendere possibile il controllo pubblico dei reali costi di approvvigionamento e di gestione, superando la pratica che le grandi opere sono pagate dallo stato e le tariffe coprono soltanto i costi di personale e gestione ordinaria; si vedrà, così, qual'è effettivamente il "costo" aziendale dell'acqua e sarà possibile correggere le discriminazioni nei prezzi di questa merce essenziale.
Bisogno di conoscenze e di cultura
Il successo dell’applicazione dello spirito genuino delle legge sulla gestione del territorio secondo i bacini idrografici trova un ulteriore ostacolo nell’ignoranza. Se un amministratore preveggente si proponesse di prendere iniziative contro l'inquinamento e contro le alluvioni, per la difesa delle spiagge contro l'erosione, per la difesa del suolo e il rimboschimento, eccetera, tenendo conto di quanto avviene nei bacini idrografici del suo territorio e di quelli vicini, si accorgerebbe ben presto di quanto sono scarse le informazioni sugli scambi e sui flussi di materia e di energia entro ciascun bacino idrografico; quanto sia carente, cioè l'informazione sulla "contabilità" economico-ecologica a livello di bacino. Basta guardare le lacune e i silenzi delle “statistiche ambientali” dell’Istat, dei volumi sullo “stato dell’ambiente”.
Occorre pertanto con urgenza sviluppare e rendere pubbliche adeguate conoscenze sulla contabilità degli scambi di beni economici (materie prime, merci e manufatti) e di beni ecologici (flussi di energia e di materiali) a livello dei vari bacini idrografici. Si tratta di mettere a punto metodi e tecniche e modelli, di raccogliere dati ecologicamente significativi --- ecologici, geologici, sui cicli produttivi, sull'economia, eccetera --- in modo da identificare quanto avviene in ciascun bacino idrografico e di prevederne le conseguenze.
Occorre, per esempio, misurare, nel corso di un anno, il volume di acqua trasportato da ciascun affluente e dal fiume principale, la quantità di sostanze sospese e disciolte in ciascuna "porta" o dogana, in cui un fiume si immette in un altro fiume e poi nel mare, occorre calcolare la perdita di terreno in seguito all'erosione, la massa di sabbia e ghiaia prelevata dal greto di ciascun fiume, e poi occorre tenere conto degli abitanti umani e animali, dei loro escrementi e rifiuti, delle fabbriche, per ciascuna delle quali occorre conoscere le materie prime e i cicli produttivi e i rifiuti e come questi rifiuti solidi e liquidi e gassosi si distribuiscono nelle varie parti di ciascun bacino e sottobacino.
Bisogna tenere presente che molti di questi flussi variano nel corso dell'anno. Finora sono state fatte indagini su alcuni bacini idrografici, e anche alcuni studi di modellistica, ma nessuno di questi ha finora affrontato la redazione di una vera "contabilità" economico-ecologica, come è invece necessario fare. Occorre poi aprire un dibattito su come è possibile condurre la difesa ambientale --- dalla lotta all'inquinamento alla difesa del suolo --- nei bacini idrografici interregionali. E' certo che non si possono trattare le licenze edilizie, la viabilità, la caccia, l'uso dell'acqua, le escavazioni nei greti dei fiumi, con due diversi metri di valutazione, al di qua e al di la di una linea di confine regionale tracciata su una carta geografica, ma ecologicamente priva di senso, a meno di condannare a morte l'intera zona da amministrare. Qualsiasi ostacolo o rifiuto, da parte degli enti locali, ad una gestione unitaria dei bacini idrografici che si estendono nei rispettivi territori può tradursi soltanto in un disastro --- in costi monetari e in danni e dolori a livello territoriale --- per grandi pezzi del nostro paese.
Va anche ricordato che in molte zone viene fatto un uso distorto, eccessivo dell'acqua: si può e si deve avere lo stesso livello di progresso consumando "meno" acqua. Eppure si potrebbe produrre merci usando meno acqua e riutilizzando le acque usate; si potrebbe usare meno acqua nelle case e negli elettrodomestici, a parità di effetto, con adatte innovazioni tecniche. Qualche utile indicazione sull'economia dell'acqua potrebbe essere fornita da una proposta di riconoscere e valutare il "costo in acqua" delle merci, definito come la massa di acqua, in unità fisiche (litri, chili, tonnellate, metri cubi), necessaria per produrre una unità di peso o una unità di una merce.
Per esempio il costo in acqua --- il numero di litri di acqua richiesti --- per produrre un chilo di pomodori, o di pasta alimentare, o di un imballaggio di vetro rispetto a quello di plastica, eccetera. In analogia alle valutazioni di ecolabel si potrebbe pensare ad una elaborazione di acqua-label, essendo più desiderabile e preferibile la merce che, a parità di qualità, è stata ottenuta con un minor consumo di acqua. Si potrebbe, infine, "fabbricare" nuova acqua dolce per dissalazione dell'acqua di mare. In molte zone costiere prive di acqua dolce siamo circondati da quantità enormi di acqua salina del tutto inutilizzabile per fini umani, per bere, per l'irrigazione.
Vengono così alla mente le parole della "Ballata del vecchio marinaio" di Coleridge: "Acqua, acqua dovunque e non una goccia da bere".
Eppure sono note varie tecniche che consentono di separare l'acqua dai sali presenti nel mare ricuperando acqua dolce priva o povera di sali; i sistemi di dissalazione richiedono energia, ma il vantaggio dell'acqua dolce è così grande da giustificare costi anche elevati.
Con gli attuali sistemi di dissalazione basati sul calore o sull'energia elettrica un metro cubo, cioè mille litri di acqua dissalata ottenuta dal mare costano --- in moneta odierna circa un euro e mezzo; mille litri di acqua potabile distribuita dagli acquedotti urbani costa fra 0,5 e 2 euro; 1000 litri di acqua "minerale" in bottiglia costano da 100 a 300 euro in su.
A questo proposito, anzi, va ricordato che circola la distorta idea che l'acqua dei rubinetti "non è buona". Si può dire che l'acqua di una città piace o non piace, ma non ha senso dire che "non è buona" dal punto di vista igienico.
Per legge gli acquedotti devono distribuire acqua potabile con standard europei che sono anzi, come si è detto, molto severi. Quindi non ha senso ricorrere all'acqua in bottiglia perché quella dell'acquedotto pubblico non è affidabile. Si può usare acqua in bottiglia o perché piace, o perché il medico la consiglia (se ci si crede). L'acquirente di acqua in bottiglia deve però fare il conto col fatto che l'acqua in bottiglia, che, ripeto, dal punto di vista dell'igienicità alimentare è equivalente a quella del rubinetto, costa, come si è detto, oltre cento volte di più dell'acqua del rubinetto. In Italia si vendono circa dieci miliardi di litri di acqua in bottiglia, pari a 10 milioni di m3 all'anno, un cinquantesimo di tutta l'acqua distribuita e venduta per uso domestico.
Il fatto curioso è che spesso in una regione vengono usate acque in bottiglia provenienti da centinaia di chilometri di distanza, e che questo gran traffico coinvolge l'acqua e le bottiglie di plastica o di vetro, e le bottiglie vuote.
Quando la stessa regione magari ha imprese di imbottigliamento di acque che magari vengono vendute, a loro volta, a decine o centinaia di chilometri di distanza.
Tutto questo comporta anche un rilevante consumo energetico, ha, insomma, un elevato "costo energetico".
Si può stimare che il trasporto di 10 milioni di metri cubi di acqua e bottigliame a distanza di 100 chilometri ogni anno comporta, fra andare e tornare, un consumo di circa 100.000 tonnellate di gasolio, una bella frazione delle circa 15 milioni di t di gasolio consumati complessivamente ogni anno per il trasporto di persone e merci su strada.
E solo per trasportare dell'acqua e le sue bottiglie ! Da questo punto di vista si potrebbe almeno incoraggiare l'uso, in ciascuna regione, dell'acqua in bottiglia prodotta nella regione stessa.
Infine non si deve dimenticare che la produzione e il commercio dell'acqua in bottiglia contribuisce in maniera rilevante alla produzione di scarti e rifiuti di imballaggio, per migliaia di tonnellate all'anno.
Sarebbe anche interessante riesaminare la validità biologica dell'uso di acque oligominerali, che vanno di moda, che sono povere di sali di calcio i quali hanno un ruolo importante nell'alimentazione. I sali di calcio presenti nelle acque del rubinetto disturbano nelle operazioni di lavaggio, ma danno un contributo da non trascurare nell'apporto di calcio alla dieta. Non sarà che il crescente uso di acque povere di calcio porterà a carenze alimentari di calcio soprattutto nei bambini? una generazione di rachitici o di adulti .... "osteoporotici"? Il fabbisogno medio di calcio di una persona si aggira intorno a 1 grammo al giorno, ma che l'apporto del calcio con la dieta spesso si aggira intorno a 0,6 - 0,7 grammi al giorno; la differenza potrebbe essere apportata con il calcio presente nell'acqua potabile, anziché con pastiglie di sali di calcio.

(1) Cfr., fra l’altro: Marie-Vic Ozouf-Matrignier, “De l’universalisme constituant aux interet locaux: le debat sur la formation des departements en France (1789-1790)”, Annales, A1, (6), 1193-1213 (novembre-dicembre 1986)
(2) In seguito alla conquista napoleonica, dal 1802 al 1815 anche l'Italia settentrionale e centrale sono state divise in dipartimenti. Dal 1810 al 1815, quando l'Italia nord-orientale e centro-orientale era incorporata nel Regno italico e quella nord e centro-occidentale era incorporata nell'Impero francese, sono esistiti i seguenti dipartimenti: nel Regno italico (da ovest a est): Agogna; Lario; Olona (capitale Milano); Adda; Serio (capitale Bergamo); Alto Po; Mella (capitale Brescia); Mincio (capitale Mantova); Adige (capitale Verona); Bacchiglione; Piave; Tagliamento; Passariano; Brenta (capitale Padova); Adriatico; Basso Po; Crostolo; Panaro; Reno (capitale Bologna); Rubicone; Metauro; Musone; Tronto. Nel territorio italiano sotto l'Impero francese (da nord a sud): Sempione; Dora; Sesia; Po; Marengo; Stura; Montenotte; Genova; Taro; Appennino; Arno; Mediterraneo; Ombrone; Trasimeno; Tevere. Cfr., per esempio: E. V. Tarle, "La vita economica dell'Italia nell'età napoleonica", Torino, Einaudi, 1950.