La città è lo spazio più avanzato della società umana, che si chiama civile proprio perché la città offre occasioni di lavoro e di cultura, occasioni di incontri e di conoscenza, offre (dovrebbe offrire) migliori servizi di scuole e protezione della salute --- ed è anche il territorio in cui il possesso privato dello spazio assicura il massimo profitto.
La città è un grande organismo vivente, un vero e proprio ecosistema artificiale composto di tanti individui con diversa età e diversi bisogni: di cibo, prima di tutto, e poi di acqua per usi alimentari e igienici, ma poi di altri beni fisici come fonti di energia, metalli, carta, cemento, imballaggi.
La città è attraversata da un flusso di persone e mezzi di trasporto che vengono dall’esterno nella città e ritornano fuori dalla città ogni giorno, e da un flusso di merci che vengono “metabolizzate” dagli abitanti della città e trasformate in scorie e rifiuti gassosi (che finiscono nell’atmosfera), liquidi che finiscono nei fiumi o nel mare vicini, o nel sottosuolo, e solidi che finiscono nelle zone circostanti in discariche o in impianti di trattamento che li trasformano in altre sostanze.
La mobilità delle persone all’interno della città è assicurata ai pedoni e ai mezzi di trasporto dalle strade, dai marciapiedi, dalle piazze. Ciascuna città è collegata a innumerevoli altre, grandi o piccole, associate nel flusso di persone, di merci, di rifiuti.
E’ la vita, proprio come quella di un bosco o di una prateria.
A mano a mano che è aumentata la capacità di attrazione di ciascuna città sono aumentati il numero di abitanti e di mezzi di trasporto, e la massa di merci e rifiuti.
La crisi e la violenza della città (uso il singolare perché si manifestano, sia pure in diversa forma, in ogni città grande o piccola, megalopoli industriale o del sud del mondo) derivano da un principio biologico ineluttabile, la limitatezza dello spazio.
In un ecosistema quando il numero di individui (vegetali o animali o umani), e lo spazio occupabile si avvicinano ad una soglia che gli ecologi chiamano “capacità ricettiva” dell’ecosistema, la crescita del numero di individui rallenta e poi si ferma; anzi comincia a rallentare prima e comincia a “decrescere” perché l’ecosistema viene intossicato dalle scorie della vita degli abitanti.
Nell’ecosistema urbano sono fisicamente limitate la superficie dello spazio abitabile e delle strade che possono essere percorse, la disponibilità di acqua e la capacità ricettiva delle scorie del metabolismo; ad un certo punto si vedono i segni che permettono di riconoscere che la crescita del numero degli abitanti, degli autoveicoli che occupano le strade, in moto o fermi, deve rallentare, si deve fermare, può addirittura indurre all’espulsione di una parte degli esseri viventi, umani e meccanici, dall’interno di ciascuna città.
La crescita urbana è, insomma, insostenibile, non può durare a lungo. In genere gli abitanti della città non si accorgono che si sta avvicinando la crisi; poiché credono che ogni segno di saturazione possa essere superato con strumenti tecnico-economici.
La saturazione degli spazi in cui le automobili possono restare a lungo ferme si può superare con parcheggi a pagamento o con parcheggi sotterranei o occupando i “marcia-piedi”, e poco conto se ciascuno di questi atti favorisce alcuni abitanti a danno dei più poveri o dei più deboli: è la lotta per la vita.
La massa dei rifiuti solidi può essere fatta diminuire incenerendoli (scusate: termovalorizzandoli); il flusso di gas inquinanti nell’atmosfera può essere rallentato modificando la qualità merceologica dei combustibili.
La tecnica ci salverà. Nossignori.
Nessuna tecnica può dilatare gli spazi delle strade o delle discariche dei rifiuti, la modificazione dei carburanti fa forse diminuire un poco i gas emessi per unità di energia, ma se aumenta in assoluto il consumo di energia o di merci il carattere di insostenibilità fa spostare più avanti o altrove il tempo o il luogo della crisi.
E, come se non bastasse la violenza delle merci, ci si mette anche la natura: per occupare altri spazi gli umani invadono il greto e le golene dei fiumi, e spianano i fianchi delle valli e poi si arrabbiano se il moto violento delle acqua occupa e spazza via gli edifici. La insostenibilità dei nostri attuali comportamenti non ci fa tornare al lume delle candele: gli aspetti positivi, civili, della città possono essere goduti prima di tutto tenendo conto delle leggi “biologiche” della sua sopravvivenza, e poi pianificando la distribuzione nello spazio delle abitazioni, dei posti di lavoro, dei servizi, i flussi di acqua e merci e rifiuti, la mobilità, sulla base della capacità ricettiva e della geografia dell’ecosistema, una operazione che impone di mettere il naso nella rendita urbana. Una volta la chiamavano urbanistica e qualcuno credeva che fosse rivoluzionaria.
La città è un grande organismo vivente, un vero e proprio ecosistema artificiale composto di tanti individui con diversa età e diversi bisogni: di cibo, prima di tutto, e poi di acqua per usi alimentari e igienici, ma poi di altri beni fisici come fonti di energia, metalli, carta, cemento, imballaggi.
La città è attraversata da un flusso di persone e mezzi di trasporto che vengono dall’esterno nella città e ritornano fuori dalla città ogni giorno, e da un flusso di merci che vengono “metabolizzate” dagli abitanti della città e trasformate in scorie e rifiuti gassosi (che finiscono nell’atmosfera), liquidi che finiscono nei fiumi o nel mare vicini, o nel sottosuolo, e solidi che finiscono nelle zone circostanti in discariche o in impianti di trattamento che li trasformano in altre sostanze.
La mobilità delle persone all’interno della città è assicurata ai pedoni e ai mezzi di trasporto dalle strade, dai marciapiedi, dalle piazze. Ciascuna città è collegata a innumerevoli altre, grandi o piccole, associate nel flusso di persone, di merci, di rifiuti.
E’ la vita, proprio come quella di un bosco o di una prateria.
A mano a mano che è aumentata la capacità di attrazione di ciascuna città sono aumentati il numero di abitanti e di mezzi di trasporto, e la massa di merci e rifiuti.
La crisi e la violenza della città (uso il singolare perché si manifestano, sia pure in diversa forma, in ogni città grande o piccola, megalopoli industriale o del sud del mondo) derivano da un principio biologico ineluttabile, la limitatezza dello spazio.
In un ecosistema quando il numero di individui (vegetali o animali o umani), e lo spazio occupabile si avvicinano ad una soglia che gli ecologi chiamano “capacità ricettiva” dell’ecosistema, la crescita del numero di individui rallenta e poi si ferma; anzi comincia a rallentare prima e comincia a “decrescere” perché l’ecosistema viene intossicato dalle scorie della vita degli abitanti.
Nell’ecosistema urbano sono fisicamente limitate la superficie dello spazio abitabile e delle strade che possono essere percorse, la disponibilità di acqua e la capacità ricettiva delle scorie del metabolismo; ad un certo punto si vedono i segni che permettono di riconoscere che la crescita del numero degli abitanti, degli autoveicoli che occupano le strade, in moto o fermi, deve rallentare, si deve fermare, può addirittura indurre all’espulsione di una parte degli esseri viventi, umani e meccanici, dall’interno di ciascuna città.
La crescita urbana è, insomma, insostenibile, non può durare a lungo. In genere gli abitanti della città non si accorgono che si sta avvicinando la crisi; poiché credono che ogni segno di saturazione possa essere superato con strumenti tecnico-economici.
La saturazione degli spazi in cui le automobili possono restare a lungo ferme si può superare con parcheggi a pagamento o con parcheggi sotterranei o occupando i “marcia-piedi”, e poco conto se ciascuno di questi atti favorisce alcuni abitanti a danno dei più poveri o dei più deboli: è la lotta per la vita.
La massa dei rifiuti solidi può essere fatta diminuire incenerendoli (scusate: termovalorizzandoli); il flusso di gas inquinanti nell’atmosfera può essere rallentato modificando la qualità merceologica dei combustibili.
La tecnica ci salverà. Nossignori.
Nessuna tecnica può dilatare gli spazi delle strade o delle discariche dei rifiuti, la modificazione dei carburanti fa forse diminuire un poco i gas emessi per unità di energia, ma se aumenta in assoluto il consumo di energia o di merci il carattere di insostenibilità fa spostare più avanti o altrove il tempo o il luogo della crisi.
E, come se non bastasse la violenza delle merci, ci si mette anche la natura: per occupare altri spazi gli umani invadono il greto e le golene dei fiumi, e spianano i fianchi delle valli e poi si arrabbiano se il moto violento delle acqua occupa e spazza via gli edifici. La insostenibilità dei nostri attuali comportamenti non ci fa tornare al lume delle candele: gli aspetti positivi, civili, della città possono essere goduti prima di tutto tenendo conto delle leggi “biologiche” della sua sopravvivenza, e poi pianificando la distribuzione nello spazio delle abitazioni, dei posti di lavoro, dei servizi, i flussi di acqua e merci e rifiuti, la mobilità, sulla base della capacità ricettiva e della geografia dell’ecosistema, una operazione che impone di mettere il naso nella rendita urbana. Una volta la chiamavano urbanistica e qualcuno credeva che fosse rivoluzionaria.
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