La vita è piena di rischi; forse è bella anche perché comporta una continua sfida a superarli. I rischi vengono dal mondo circostante, dagli eventi naturali, dalla miopia o dall'avidità delle scelte umane; il loro superamento richiede conoscenza e lungimiranza e l'applicazione di uno dei seguenti principi: la precauzione, la protezione e la prevenzione. Prendiamo il caso del dibattito sulla diffusione degli organismi geneticamente modificati (OGM); si tratta, come è ben noto, di vegetali e animali il cui patrimonio genetico è modificato ad arte al fine di "migliorarne" le caratteristiche economiche e commerciali, merceologiche, insomma. Nel caso dei vegetali si tratta, per esempio, di renderli resistenti all'attacco di parassiti, o tolleranti di alcuni antiparassitari, o di aumentare le rese per ettaro per guadagnare di più per unità di denaro investito nelle sementi o nelle coltivazioni. Nel caso degli animali si tratta di renderli più resistenti alle malattie o di aumentare la resa di latte o di migliorare la qualità delle carni. La proposta di commercializzazione degli OGM da parte delle società che producono sementi previo trattamento del loro patrimonio genetico ha incontrato l'opposizione di un vasto movimento con diversi volti: alcuni etici (non si deve manipolare quello che la natura o dio hanno creato); alcuni ambientalisti (non si può sapere se la diffusione di vegetali geneticamente modificati può alterare gli equilibri ecologici di una zona o dell'intero pianeta); altri perché non si può sapere se chi si nutre di alimenti ottenuti da OGM, può essere esposto a modificazioni genetiche del suo stesso organismo umano, o quali conseguenze sulla resistenza alle malattie, o sulla resistenza ai medicinali, avrà in futuro. Al di là delle motivazioni, l'opposizione alla diffusione degli OGM (diffusione che peraltro è già in atto e difficilmente reversibile) è basata sul principio di precauzione: non si facciano scelte di cui non sono ragionevolmente prevedibili gli effetti; si accertino gli effetti a lungo termine e poi ci si pensi. Il principio di precauzione induce perciò a fermare nuove scelte. Chi vuole sapere di più sulle considerazioni etiche, filosofiche e pratiche del "principio di precauzione" può utilmente leggere il libro, con lo stesso titolo, di Maria Grazia Francescato e Alfonso Pecoraro Scanio pubblicato nel 2002 a Milano da Jaca Book Un rischio per la vita umana, per i beni economici, può venire da incidenti dovuti a eventi "naturali" (terremoti, incendi di boschi, nevicate eccezionali, eccetera) o a malfunzionamento di fabbriche, a perdite di sostanze tossiche da mezzi di trasporto, a incendi e scontri in gallerie. Si verificano continuamente; alcuni incidenti hanno avuto o hanno risonanza nazionale (Seveso, Manfredonia, Marghera), affondamento di navi come la "Cavtat", la "Klearcos", eccetera. In genere l'evento comporta pericoli per la salute, per i beni materiali privati (abitazioni, campi coltivati) e pubblici (strade e ferrovie) o per le acque o il mare, e richiede l'intervento di strutture predisposte dalle autorità pubbliche per la "protezione", civile, appunto. Diverso è il rigetto di scelte di cui si conoscono ragionevolmente le conseguenze. E' il caso dei rischi del nucleare: l'energia dalla fissione del nucleo atomico è ottenuta nel mondo ormai da mezzo secolo; si sa come funziona una centrale, si conoscono le varie vasi del ciclo dell'uranio, si sa che cosa resta alla fine della vita utile di una centrale, si conoscono gli effetti della radioattività, si ha una abbondante statistica di effetti negativi e rischi in tutte le fasi del ciclo nucleare. Si conoscono gli incidenti che possono succedere e sono successi nella fase di arricchimento dell'uranio, nel trasporto, durante il funzionamento dei vari tipi di reattori, si conoscono i rischi delle operazioni di trattamento dei prodotti radioattivi che si formano durante la produzione di calore e quindi di elettricità, si conoscono le difficoltà relative alla sepoltura delle scorie. Davanti alla proposta di costruzione di nuove centrali, o di depositi di scorie o di altre parti del ciclo nucleare può scattare una protesta basata sul principio di prevenzione: alcuni soggetti o gruppi di persone ritengono che si debbano evitare, prevenire, appunto, opere di cui si conoscono gli effetti negativi. Il principio di prevenzione comporta dei delicati rapporti essenzialmente politici; non esistono (in genere) gruppi di persone diaboliche o malvagie che si propongono di fare delle cose a fini di male pubblico. Per restare al caso del nucleare i proponenti di nuove centrali sostengono di farlo sapendo che il rischio nucleare è accompagnato da alcuni "vantaggi": il fatto che si evita l'emissione di anidride carbonica responsabile dell'effetto serra, che il costo del chilowattora è inferiore (valutazione peraltro controversa) a quello del chilowattora da carbone o petrolio o solare, eccetera. A questo punto non si tratta più di esercitare la precauzione verso effetti sconosciuti; si tratta di confrontare i costi (del rischio) e i benefici impliciti in ciascuna proposta e la decisione è soltanto politica e può essere affrontata soltanto attraverso i meccanismi della politica. La situazione è simile per molti altri rischi. Chi ha costruito e costruisce bombe atomiche sa bene che la esplosione anche di una sola bomba nucleare porterebbe la morte diretta, o dilazionata nel tempo per l'esposizione alla radioattività, di centinaia di migliaia di persone, ma non costruisce le bombe (con tutti i rischi che tale attività accompagnano) per pura malvagità. La struttura militare-industriale nucleare si propone alla società come lo strumento indispensabile per difendere la propria patria dal rischio di aggressione di nemici, per impedire ad altri di usare per primi le armi nucleari, secondo il principio di deterrenza. Tuttavia chi invoca il principio di precauzione sostiene che nessun pericolo possibile giustifica i rischi e le conseguenze e i pericoli certi che avrebbe una esplosione nucleare o accidentale, o volontaria, o per incidente. Si potrebbe scrivere una storia, molto interessante, delle contrapposizioni fra studiosi e fra gruppi di persone favorevoli o contrari alla proliferazione delle armi nucleari. Per inciso nel maggio 2005, quindi quando i lettori avranno fra le mani questo fascicolo, è prevista a New York una nuova conferenza internazionale per discutere le speranze e i limiti del trattato di non proliferazione delle armi nucleari, una sede in cui i vari volti del principio di precauzione avranno modo di confrontarsi e di far sentire la loro voce. Spero che la stampa italiana, in genere così distratta nei confronti dei dibattiti da cui dipende il nostro futuro, dedichi qualche pagina alla prevenzione della crescita e diffusione delle armi nucleari. Per restare ad aspetti molto più volgari e terra-terra dei dibattiti sulla prevenzione, si può citare il caso della sistemazione dei rifiuti solidi, un tema notissimo a tutti. I rifiuti ci sono, sono tanti, in Italia cento milioni di tonnellate all'anno, di cui i soli rifiuti solidi domestici ammontano a trenta milioni di tonnellate all'anno. Una delle proposte per liberarsene consiste nel bruciarli; i rifiuti domestici contengono sostanze combustibili, come residui organici, di alimenti, carta, plastica, tessuti, eccetera, che, nel riscaldamento ad alta temperatura, generano vapore acqueo, anidride carbonica e altri gas che finiscono nell'atmosfera. Per anni l'incenerimento dei rifiuti è stata la soluzione per lo smaltimento dei rifiuti; peraltro molti hanno osservato che, col "progresso" merceologico, nei rifiuti finiscono i residui di molte altre merci, come pile elettriche contenenti metalli tossici, plastiche a base di cloruro di polivinile o contenenti coloranti e additivi tossici, eccetera. Gli "altri gas" che finiscono nell'atmosfera durante l'incenerimento dei rifiuti hanno rivelato, con indagini più accurate, di contenere sostanze come le diossine, che ricadono all'esterno dell'impianto e contaminano le acque e i prodotti agricoli destinati all'alimentazione umana. Per questi motivi, quando viene proposta la costruzione di un inceneritore di rifiuti (sia pure col nome, più "politicamente corretto" e accettabile, di termovalorizzatore) molte popolazioni si oppongono proprio sulla base del principio di precauzione, proprio per evitare i possibili noti rischi dovuti all'aumento della contaminazione ambientale. Un recente libro di Marino Ruzzenenti, "L'Italia sotto i rifiuti", pubblicato a Milano da Jacabook nel 2004, descrive bene i motivi dell'opposizione agli inceneritori di rifiuti. D'altra parte i rifiuti crescono continuamente: come possiamo sbarazzarcene ? Coloro che si oppongono, per precauzione, agli inceneritori suggeriscono che con la raccolta differenziata, il riciclo dei materiali che possono essere trasformati in nuove merci, con discariche ben costruite in zone opportune, è possibile evitare gli inceneritori. Da parte loro i fautori degli inceneritori si danno da fare per sottolineare che un rischio esiste, ma che è di gran lunga inferiore a quanto viene affermato dagli oppositori, e che le operazioni di riciclo o le discariche comportano difficoltà, altri conflitti, comportano costi che con gli inceneritori sarebbero minori. Si tratta di un altro interessante conflitto fra costi e benefici, non solo monetari, perché si tratta anche di uno scontro di "valori": il valore di minori costi monetari contro il "valore" della difesa della salute attuale e futura. Anche qui le decisioni vanno prese attraverso le procedure della politica, col consenso dei cittadini o con l'imposizione di leggi da parte di governi. Il risultato del confronto non è facile: nei tre casi finora esaminati --- armi nucleari, centrali nucleari, inceneritori di rifiuti --- i cittadini si trovano di fronte a gruppi contrapposti di "scienziati" che riferiscono non i risultati di analisi di laboratorio, ma "valutazioni". Adatti strumenti possono, volendo, anche se è tutt'altro che facile, indicare quanti grammi o chili di diossina o di mercurio escono dal camino di un inceneritore ogni anno. Ma, a questo punto, come è possibile valutare quante persone si ammaleranno, o moriranno, come conseguenza di "quei" chili di diossina o mercurio usciti da "quell'inceneritore" ? E supposto anche che si riesca a identificare il numero di malati o di morti per chilo di diossina fuoriuscito da un camino, quanto "costa" o "vale" una settimana di ricovero in ospedale o un mese di vita perduta da una persona ? Un altro esempio di applicazione del principio di prevenzione è offerto dalla normativa contro i rischi degli incidenti industriali. Dopo l'incidente del 1976, nel corso del quale da una fabbrichetta posta a Meda, a nord di Milano, per la rottura di una valvola fuoriuscirono nell'aria alcuni chili di diossina che ricadde sul vicino comune di Seveso, è stato deciso, a livello europeo, e quindi anche italiano, di prevenire gli incidenti industriali attraverso la conoscenza dei processi produttivi, delle materie trattate, e predisponendo procedure per ridurre al minimo i danni interni ed esterni. La "direttiva Seveso", della Comunità europea, con numerose varianti successive, stabilisce che ogni industria deve dichiarare le materie che tratta al suo interno e la quantità di sostanze indicate come pericolose in uno speciale elenco. Se una industria contiene una o più di esse in quantità superiore a certi limiti, viene dichiarata "a rischio" o "a rischio rilevante". A fini di prevenzione, per le industrie "a rischio rilevante" deve essere predisposto un piano di emergenza nel quale è scritto che, in caso di incidente, gli addetti devono fare questo e quest'altro, la popolazione esterna deve essere fatta sfollare secondo un certo piano o deve comportarsi secondo certe indicazioni. C'è stato negli anni un grande dibattito; le industrie si sono battute con energia per evitare di dover dichiarare le materie trattate e i prodotti pericolosi contenuti in ciascuno stabilimento. Le procedure di prevenzione comportano dei costi per le imprese ed è facile gioco dire che tali costi sono esagerati rispetto al "costo" dei danni alla popolazione in caso di incidente, che la probabilità di tali incidenti è molto bassa, e infine che tutti questi vincoli, nel nome di ipotetici rischi, potrebbero anche compromettere l'occupazione. Inoltre il principio di prevenzione presuppone che vi sia la massima trasparenza e informazione sulle fonti di rischio e ben pochi hanno voglia di essere considerati "pericolosi" per i vicini. Di fatto i pian i di emergenza in caso di incidenti sono depositati, per motivi di ordine pubblico, per non spaventare la gente, presso le prefetture e hanno una minima circolazione esterna, il che è un inconveniente perché il successo della difesa dai rischi presuppone invece proprio il massimo di conoscenza. Se le procedure scattano soltanto quando l'incidente è avvenuto, può essere troppo tardi. Come ultimo esempio citerò la prevenzione delle alluvioni, delle frane, dei disastri conseguenti piogge e nevicate; una lunga serie di notizie storiche è in grado di indicare dove le piogge più intense allagano le valli e le pianure e spiega bene che tali alluvioni e le frane derivano dalla violenta e rapida interazione fra l'acqua delle piogge, o della fusione delle nevi, con il suolo. La prevenzione richiede opere di difesa del suolo, come il rimboschimento, e vincoli nelle costruzioni e nelle opere che intralciano il moto delle acque. Le cose da fare, e da non fare, sono state elencate dopo l'alluvione del Polesine del 1951, dopo l'alluvione di Firenze del 1966 e sono state continuamente ripetute; nel 1985 la legge "Galasso" indicò dove non si doveva edificare per evitare alluvioni; nel 1989 la legge sulla difesa del suolo ha esplicitamente chiesto alle autorità dei vari bacini idrografici di indicare le zone a rischio di alluvioni; dopo le alluvioni di Sarno una legge del 1998 prescrive che le autorità locali elenchino le zone a rischio nelle quali non devono essere frapposti ostacoli (intendo dire strade, edifici, fabbriche) al moto delle acque dalla montagna e dalle colline verso il mare. Tutte norme ben poco o niente applicate, e anzi quando qualcuno "si azzarda" a indicare le zone a rischio, innumerevoli interessi privati, ma anche pubblici, impediscono che la prevenzione venga attuata. Sapendo, con buona probabilità e con qualche anticipo, quando si verificheranno nevicate, piogge, alluvioni e siccità, e sapendo più o meno dove tali eventi si verificheranno, sarebbe il caso di predisporre strumenti di intervento in anticipo. La prevenzione costa dei soldi ma si tratta di costi inferiori alle spese necessarie per ripristinare le cose distrutte e risarcire le persone colpite. Precauzione, protezione e prevenzione sono le "tre P" del vivere civile, ma la prevenzione è la più importante. Stiamo andando verso elezioni nazionali nel 2006: vorrei concludere con la modesta proposta di inserire, fra i programmi di chi si candida per governare l'Italia, per portare la voce dell'Italia in Europa, il problema della risoluzione dei conflitti relativi alle procedure di prevenzione per evitare i rischi.