di Giorgio Nebbia
Quarant’anni fa, nel 1972, appariva la traduzione italiana di un libro intitolato “Il cerchio da chiudere”, del biologo americano Barry Commoner, uno studioso che era stato attivo nella denuncia dei danni ecologici e umani derivanti dalle scorie radioattive delle esplosioni nucleari dell’atmosfera e nei movimenti che portarono alla cessazione di tali esplosioni a partire dal 1962. Commoner aveva pubblicato vari libri e articoli per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle conseguenze negative di molte innovazioni tecnico-scientifiche, e sui rapporti fra scienza e società. Commoner spiegava che la natura opera secondo cicli chiusi; le scorie della vita animale e vegetale diventano fonti di altra vita; la tecnica umana invece produce scorie che sono estranee alla natura e fonti di inquinamento. La salvezza andava perciò cercata nello sforzo di “chiudere il ciclo” prodotti-natura, come diceva il titolo del libro citato all’inizio.
Nei primi anni settanta del Novecento era in corso un vivace dibattito che identificava nell’aumento della popolazione mondiale (allora di circa 3500 milioni di persone che crescevano in ragione di ottanta milioni all’anno), la causa della scarsità di cibo e di materie prime e i guasti ambientali. La più vivace voce di tale dibattito era quella di un altro biologo americano, Paul Ehrlich, il quale sosteneva che l’aumento della popolazione comportava un aumento del consumo di merci e di energia e di beni materiali e il conseguente aumento degli inquinamenti e l’impoverimento delle risorse naturali; insomma più persone, tanto peggiore l’ambiente.
A questo punto intervenne Barry Commoner con una serie di articoli, e poi con il libro citato all’inizio, in cui sostenne che il degrado ambientale dipende soprattutto dalla qualità dei prodotti e delle merci, cioè della tecnica di produzione. Dall’Ottocento e soprattutto nel Novecento si sono infatti moltiplicati i prodotti sintetici che sono chimicamente estranei ai grandi cicli naturali. Le materie plastiche, i detergenti sintetici, i pesticidi, gli idrocarburi clorurati, i concimi, molti metalli industriali come mercurio e piombo, alla fine della loro vita “utile”, restano nelle acque e nel suolo per decenni e avvelenano le forme di vita arrivando fino agli alimenti umani. In conclusione l’aumento della produzione delle merci sintetiche, necessaria per assicurare lavoro e per soddisfare bisogni umani, fa aumentare a velocità ancora maggiore la massa delle scorie e dei rifiuti e la loro pericolosità.
Ai fini della soluzione del problema ambientale non si tratta di esprimere un giudizio etico, se sono bene o male, l’aumento della popolazione mondiale e l’aumento della produzione e dei consumi di beni materiali; occorre chiedersi che cosa e come si produce. Da quando Commoner ha scritto il suo libro la popolazione mondiale è raddoppiata (e oggi continua a crescere di settanta milioni di persone all’anno); l’estrazione di risorse naturali energetiche, minerali, agricole e forestali è aumentata di tre volte e di altrettante volte è aumentata la produzione mondiale di rifiuti: 35 miliardi di tonnellate all’anno di gas, principalmente anidride carbonica, finiscono ogni anno nell’atmosfera del nostro pianeta peggiorando il clima; la massa dei rifiuti solidi prodotti nel mondo aumenta in ragione di circa 50 miliardi di tonnellate all’anno, aumenta l’erosione del suolo.
Nello stesso tempo una crescente frazione della popolazione mondiale, quella dei paesi poveri, chiede beni materiali “utili”, energia, alimenti, acqua, indispensabili per una vita decente, per assicurare la sopravvivenza dei bambini oggi uccisi dalle epidemie e dalla fame, la cura delle malattie. Commoner, che è sempre stato uno studioso di sinistra, conclude il suo libro con un messaggio di ottimismo.
E’ possibile far fronte all’aumento della popolazione mondiale ed è possibile soddisfare i crescenti bisogni di beni materiali mondiali soltanto se i governi dei vari paesi prenderanno atto che il progresso umano, il quale non ha niente a che vedere con la crescita dei soldi, potrà svolgersi con un minore danno per l’ambiente se in ciascun ciclo di produzione e di consumo si sfrutteranno di meno le risorse, limitate, offerte dalla natura, se si farà un crescente ricorso alle risorse rinnovabili, tutte derivate dal Sole, se si formeranno meno rifiuti, se essi saranno meno tossici, più biodegradabili e riciclabili, se, in tutte le nostre azioni, cercheremo di imparare dalla natura.
Non si tratta di considerazioni astratte, ma riguardano i problemi quotidiani, dalla diminuzione dei gas e rifiuti inquinanti dell’ILVA, allo smaltimento dei 120 milioni di tonnellate all’anno di rifiuti solidi italiani, alla politica di estrazione di petrolio nel Mezzogiorno, all’approvvigionamento idrico dei campi, alla politica dei trasporti, alle crescente erosione delle coste provocata dalla distruzione delle dune nel nome di una edilizia sconsiderata. Una delle “leggi” di Commoner dice che la natura sa le cose meglio di noi; per sopravvivere dobbiamo imparare a restituire alla natura le ricchezze che le chiediamo in prestito. Solo così è possibile creare nuove imprese produttive nei paesi arretrati e riorganizzare la produzione nei paesi industrializzati.
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