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nebbia giorgio
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giorgionebbiadi Giorgio Nebbia  ( Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. )

Ci siamo liberati, speriamo per sempre, dell’incubo della costruzione di centrali nucleari e adesso l’Italia deve affrontare il problema del suo futuro energetico.

L’energia non serve a niente se non è impiegata in qualche scambio e servizio economico. L’elettricità di diecimila centrali eoliche non riesce a far muovere neanche di un metro una automobile se il suo motore funziona a benzina. Diecimila tonnellate di petrolio non riescono ad accendere neanche una lampadina se non sono trasformate in elettricità in una qualche centrale, e così via. Infine l’energia non si “consuma” perché, dopo essere passata attraverso le “macchine” (che siano automobili o motori elettrici o fornelli), alla fine si ritrova tutta nell’ambiente come calore a bassa temperatura che non “serve” più niente e che scalda l’aria e le acque e altera il clima.

Il futuro economico italiano presuppone la risposta alle seguenti domande: di quanta energia totale ed elettricità avrà bisogno il paese nei prossimi, diciamo, dieci anni? L’energia è necessaria per fare che cosa? In quale modo i futuri fabbisogni di energia sono associati alla possibilità di aumentare l’occupazione? Da dove è possibile ricavare l’energia totale e l’energia elettrica nell’orizzonte temporale immaginato? Quali effetti positivi o negativi la produzione e il “consumo” di energia avranno sull’ambiente?

Una risposta si può avere soltanto se si prendono in considerazione le “destinazioni” delle varie fonti e forme di energia e l’utilità di ciascuna destinazione. Per produrre una tonnellata di acciaio occorre un certo numero di unità di energia e di ore lavorative; per produrre una tonnellata di grano occorre un certo numero di unità di energia e una certa quantità di concimi e di ore di lavoro.

Prendiamo il caso della transizione, proposta per diminuire l’inquinamento delle strade urbane, dalle automobili a benzina o gasolio a quelle elettriche. In Italia tale transizione farebbe diminuire le importazioni di petrolio e l’occupazione nelle raffinerie di petrolio e nei distributori. Nello stesso tempo aumenterebbe l’occupazione nelle fabbriche di automobili elettriche che però dovrebbero importare i materiali per i motori elettrici, dalle terre rare cinesi al litio della Bolivia; aumenterebbe l’occupazione nella rottamazione delle vecchie auto e nel riciclo dei relativi materiali e dovrebbe aumentare la produzione di elettricità mediante nuove centrali che sono inquinanti nelle zone in cui sono insediate.

L’elettricità potrebbe essere ottenuta col Sole e col vento, ma la transizione verso un crescente uso delle fonti rinnovabili richiederebbe delle macchine, dai pannelli fotovoltaici alle pale eoliche, che devono essere fabbricate, in Italia o all’estero, e che richiedono a loro volta materiali, energia e occupazione, prima di cominciare a dare l’elettricità con le forze del Sole e del vento, le uniche che sono davvero gratuite. In una ipotetica transizione dalle auto a benzina a quelle elettriche come varierebbero i consumi di energia complessivi, l’occupazione e l’inquinamento?

Nel declino delle attività manifatturiere, metallurgiche, meccaniche, chimiche, quelle che hanno assicurato finora gran parte dell’occupazione, si cerca una soluzione per la “crescita” economica nel turismo e nei servizi. Il turismo assicura un po’ di occupazione ma comporta consumi di energia nelle costruzioni, che richiedono cemento e vetri e infissi, spesso con effetti negativi sull’ambiente, e presuppone un aumento dei consumi di energia nel settore dei trasporti. Finora si è pensato che la crescita economica richieda un crescente consumo di energia che a sua volta comporta inevitabili danni ambientali.

E’ possibile piuttosto immaginare una politica diretta a diminuire i consumi di energia con un aumento dell’occupazione? Alcuni ritengono che sia possibile ma bisognerebbe fare dei conti precisi per capire quanta “intensità di energia” è associata ad ogni posto di lavoro in ciascun settore economico.

Dopo di che si potrebbe cercare di capire quali merci l’industria potrebbe produrre, con quali processi, con quali effetti sulle importazioni e esportazioni; quali prodotti agricoli e zootecnici conviene incentivare e scoraggiare; quali scelte assicurerebbero migliori servizi nelle scuole, negli ospedali, nell’assistenza agli anziani, nel turismo, come organizzare con minori sprechi la distribuzione delle merci nei negozi, la mobilità con mezzi di trasporto privati e pubblici, come distribuire abitazioni e uffici e servizi nel territorio, sotto il vincolo di meno energia, meno danni ambientali e più occupazione.

Le forze del libero mercato hanno finalità, pur legittime, che possono essere in contrasto con i precedenti obiettivi realizzabili solo con un intervento pubblico. Chi sa se qualche governo vorrà pensare alla transizione sopra proposta, che probabilmente diventerà necessaria, prima o poi, in tutti i paesi industriali.