di Giorgio Nebbia
Ancora una volta, vicino Messina, una frana ha spazzato via vite umane, povere case e le loro suppellettili e ricordi. Qualcuno ha detto che non è stata colpa della natura, ma dell’uomo, quasi genericamente malvagio e nemico della natura; in realtà la colpa è della forza del denaro e della speculazione e di un potere politico attento agli interessi degli affari e dei soldi, anche a costo del disprezzo della vita umana e della natura.
L’acqua fa il mestiere per il quale è stata predisposta dall’inizio del pianeta, come fonte della vita, non di morte: cade ogni anno sulla superficie della Terra in quantità abbastanza costante e abbastanza prevedibile da luogo a luogo, da stagione a stagione. L’acqua raggiunge il terreno e scorre verso il piano lungo i fianchi delle valli, e poi nei canali e nei torrenti e poi nei fiumi più grandi fino al mare; nel cadere sulla superficie della terra l’acqua viene a contatto con le rocce e il terreno e ne sposta le parti più leggere che diventano sabbia e limo, che scendono per gravità, depositandosi nelle parti più basse, creando quei beni utili agli esseri umani come le fertili pianure alluvionali e le spiagge. In questo suo instancabile e provvidenziale andare, l’acqua da vita ai vegetali, disseta gli animali, assicura la vita umana.
“Purtroppo” le pianure e le zone accanto ai torrenti e ai fiumi e ai laghi sono quelle più pregiate per gli insediamenti umani; i terreni agricoli si sono estesi anche sulle rive dei fiumi nelle zone che la natura aveva riservato a se stessa per far espandere le acque di piena; case e villaggi e poi città e fabbriche hanno occupato i fianchi delle valli e i fondo valle e le rive dei fiumi, dei laghi e del mare creando ostacoli al moto delle acque; così quando vi sono piogge più intense, le acque aumentano di velocità e di forza erosiva e cercano con violenza uno spazio per scendere a valle spostando masse di terra, alberi e addirittura edifici e ponti e strade.
Tutto qui; le frane e le alluvioni e i costi e i dolori e i morti sono dovuti al fatto che alcuni “soggetti economici”, nel nome del proprio interesse “economico”, hanno edificato o occupato gli spazi che dovrebbero essere liberi per il moto delle acque incanalando fiumi e torrenti in prigioni di cemento; altri, sempre per motivi “economici”, per guadagnare spazi edificabili, hanno distrutto, anche col fuoco degli incendi, gli alberi e la vegetazione spontanea e le macchie, per cui le acque hanno finito per muoversi con maggiore violenza sul suolo; molte pratiche agricole intensive hanno reso il terreno più esposto all’erosione che sposta a valle la terra fertile.
Terra, fango, detriti, ramaglie, alberi, rocce, trascinati dalle acque sempre più veloci, diventano un “tappo” fisico dei corsi di acqua e ne facilitano l’uscita dalle loro vie naturali. E’ il quadro che si è visto nei paesi intorno a Messina oggi e che si vede in tutti i casi di frane e alluvioni che divorano, da decenni, ogni anno in Italia, miliardi di euro di ricchezza e centinaia di vite umane. L’unica nostra difesa sarebbe “lo Stato” che, se operasse per il bene pubblico, dovrebbe impedire, con le leggi e con il loro rispetto, dal livello nazionale a quello delle amministrazioni locali, la costruzione di opere, private e pubbliche, edifici e strade e ponti, eccetera, nei luoghi che sarebbero riservati al moto delle acque; che dovrebbe ricostruire la copertura vegetale vietando la distruzione del verde e dei boschi e dovrebbe provvedere alla pulizia del greto di canali, torrenti e fiumi per assicurare il regolare fluire delle acque.
Purtroppo le leggi, che sono giustamente attente a punire la violenza ai privati, sono silenziose, talvolta compiacenti, quando si tratta di impedire la violenza di privati -e talvolta dello stesso stato- contro la natura, cioè contro la vita di altri cittadini. Anche se è certo che tale violenza si manifesterà periodicamente, sotto forma di disastri e morti e dolori. Ogni volta che lo stato dovrebbe dire a un cittadino che “non deve” costruire in una golena o in una lama o nel greto di un torrente o in una zona franosa, sta zitto, perché bisogna “fare”, costruire, anche se ciò sarà pagato da altri e da tutti, oggi e in futuro. Eppure, con leggi e con una buona amministrazione, si può “fare” e assicurare lavoro e case e strade, costruendo diversamente, in altri luoghi, proteggendo il suolo contro l’erosione con il rimboschimento, combattendo gli incendi.
E le leggi ci sono state; nel 1985 la legge 431 stabiliva che dovevano essere sottoposte a vincolo le rive dei torrenti e dei fiumi e del mare, la legge 183 del 1989 (venti anni fa) stabiliva regole di difesa del suolo e delle acque; e così prevedevano le leggi “Sarno” (267 del 1998), e Soverato (365 del 2000), emanate dopo i rispettivi disastri idrogeologici. Tutte leggi non applicate o violate, o rimandate o vanificate da condoni. Si sentono promesse e programmi in vista di future elezioni, ma non sento nessun impegno di aggiornare e far rispettare le leggi che impediscono gli interventi sul territorio nocivi per la vita futura degli italiani.
Se proprio i futuri governi locali e nazionali non hanno “il coraggio di dire no” alla speculazione, all’egoismo, all’avidità che si mangiano il territorio italiano, alla violenza contro la natura, almeno abbiano il pudore di smetterla con i piagnistei sui cadaveri che sono generati dalla loro incapacità di prevedere e prevenire le cause, che sono sotto gli occhi di tutti, delle morti e dei dolori e dei costi di ieri, di oggi, di domani e dopodomani.
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