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nebbia giorgio
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Chi era bambino o adulto quarant’anni fa, nel novembre 1966, ricorda l’emozione davanti alle immagini, c’era già la televisione, delle strade di Firenze, una delle più belle città del mondo, invase dal fango trascinato dalle valli toscane nell’acqua dell’Arno che aveva scavalcato gli argini; è difficile dimenticare la vista dello straordinario patrimonio di quadri e monumenti e libri e manoscritti della “Biblioteca Nazionale” e dei preziosi archivi, coperti anche loro del maledetto fango misto alla nafta e all’acqua puzzolente straripate dalle fogne della città.
E’ difficile dimenticare l’ondata di solidarietà internazionale, la calata di giovani ragazzi e studenti immersi nella sporcizia per salvare uno a uno quello che si poteva salvare dei libri.
L’alluvione “di Firenze” (purtroppo si ricorda di meno la contemporanea alluvione delle acque dell’Adige che a Trento invasero strade e fabbriche al punto da far esplodere i fusti di sodio metallico nello stabilimento del piombo tetraetile; e di Venezia che conobbe le più alte “acque alte” del secolo) mise in moto inchieste e studi, con l’obiettivo che mai più l’Italia avrebbe dovuto essere colpita così duramente.

Il governo incaricò un grande e famoso professore di idraulica, Giulio De Marchi, di presiedere una commissione che avrebbe dovuto dare precise indicazioni per il futuro. E le diede, e elencò le opere di difesa del suolo che avrebbero dovuto essere fatte, e indicò anche la cifra che avrebbe dovuto essere spesa: diecimila miliardi di lire (di allora) in dieci anni. I rari volumi della relazione sono ormai sepolti in qualche archivio o biblioteca, dimenticati.

Le opere non sono state fatte e il nostro povero suolo è rimasto per anni e decenni esposto alla speculazione edilizia, alla costruzione di strade e di edifici nei luoghi che avrebbero dovuto essere lasciati liberi al naturale moto delle acque. Come più volte si è ricordato in queste pagine, le frane e le alluvioni non sono “calamità naturali”; esse derivano dal fatto che le acque delle piogge e delle nevi, nel loro moto dalle montagne, attraverso le valli, fino ai torrenti e ai fiumi e infine al mare, hanno bisogno di avere un cammino libero da ostacoli; da tempi immemorabili la natura ha predisposto nei torrenti e nei fiumi degli spazi in cui le acque di piena possano espandersi; la natura ha predisposto sui fianchi delle valli la vegetazione che attenua la forza erosiva delle acque e ne frena il moto veloce verso il basso.
Ma le zone intorno ai fiumi e nei fondo valle sono anche le più appetibili per la costruzione di edifici, per far passare le strade e le ferrovie al minimo costo; le zone di collina e di montagna sono le più appetibili per il turismo e i relativi insediamenti “devono” poter essere raggiunti con strade asfaltate, sgombrando le valli dalla “inutile” vegetazione che intralcia gli spostamenti umani. La distruzione della vegetazione e dei boschi si è aggravata per il graduale svuotamento delle campagne, delle colline e delle montagne la cui popolazione è andata a cercare migliori condizioni di vita calando nelle città e lasciando il territorio ancora più esposto all’erosione del suolo e alle frane.
I prodotti dell’erosione, depositandosi nei fiumi e nei torrenti, ne hanno diminuito la capacità di ricevere e contenere l’acqua delle piogge, che cadono più intense in certI mesi e che, ogni anno di più, hanno trovato, nel loro moto, cemento e argini artificiali e spazi ristretti; da qui le frane e gli allagamenti dei campi e la distruzione di edifici e di strade; da qui i crescenti costi per il rifacimento delle opere pubbliche, per risarcire chi ha perduto il raccolto e la casa (magari abusiva). Le alluvioni del Po e di Firenze non hanno insegnato niente e il cammino dell’“economia” è proceduto glorioso con la moltiplicazione degli edifici e delle strade costruite proprio dove le acque avrebbero dovuto avere spazi per scendere liberamente.
Molte voci si sono levate ma sono rimaste inascoltate. Uno storico, il prof. Giuseppe Galasso, fece approvare nel 1985 una legge che vieta (vieterebbe) la costruzione di opere a meno di 300 metri dalle rive dei fiumi, dei laghi e del mare, legge continuamente violata, come può facilmente osservare chi si guarda intorno nel nostro paese. Di nuovo nel 1987 una tragica alluvione colpì la Valtellina e spinse il Parlamento ad approvare, nel 1989, una legge per la difesa del suolo, la “centottantatre”, che stabiliva che il suolo e le acque devono essere "governate" nell'ambito di ciascun bacino idrografico, con una pianificazione territoriale; una legge che indicava le cose che non si possono e non si devono fare se si vuole evitare alle future generazioni di italiani di essere travolte da acqua e fango.
Legge impopolarissima, questa della difesa del suolo, che imponeva vincoli e divieti, e pertanto mai attuata, come hanno dimostrato le frane e alluvioni che si succedono ogni anno, nella valle padana, in Toscana, in Campania, in Puglia, e così via; solo per ricordarne tre: quella della Versilia del 1996, quella del Sarno (la prima di quelle del bacino del Sarno) del 1998, quella del 2000 del Piemonte.
Dopo l’alluvione di Sarno, una delle tante, è stato emanato un altro decreto che impone la non edificabilità nei terreni che sono indicati come a rischio di frane e alluvioni.

Figurarsi! Le amministrazioni locali e gli interessi economici hanno sollevato alte lamentele: il decreto Sarno avrebbe paralizzato le attività dell’edilizia, avrebbe tagliato le gambe al turismo. Finalmente l’ultimo atto del passato Parlamento, nella primavera del 2006, è stato l’abrogazione della legge 183, con conseguente vuoto legislativo e disordine amministrativo. E fra le priorità del nuovo Parlamento non sembra figuri una nuova energica politica della difesa del suolo.
La priorità è quella risanare il bilancio dello stato, ma non si tiene conto che ad ogni frana e alluvione ci sono migliaia di cittadini e aziende e agricoltori che chiedono soldi allo stato --- la dichiarazione dello “stato di calamità” --- per ricostruire le case, riavviare le fabbriche, rimettere a coltura i campi allagati; la mancanza di investimenti per la difesa del suolo non fa quindi altro che allargare la voragine delle spese dello stato, improduttive perché destinate a sanare danni che, con molto minore spesa, si sarebbero potuti, e si potrebbero, evitare.
La priorità è, giustamente, quella dell’occupazione, ma proprio le opere di difesa del suolo sarebbero la prima grande fonte di occupazione, con il riequilibrio della distribuzione territoriale della popolazione, con l’aumento della produzione forestale da cui dipende anche la possibilità di ottenere materie prime rinnovabili anche come fonti di energia, davanti al progressivo impoverimento delle riserve petrolifere e all’esasperarsi delle modificazioni climatiche. Se ci si volta indietro si vede quanto poco il dolore dell’alluvione di Firenze ha insegnato agli italiani, oggi certamente più ricchi di merci, di telefonini, di automobili e di televisori, ma certamente più poveri degli unici valori che contano, quelli della solidarietà e del rispetto delle ineluttabili leggi della natura e delle acque, poveri di una vera moralità nei confronti del territorio, senza la quale la natura si vendica e spazza via tutta la nostra finta modernità.
Era novembre anche allora. L’alluvione del Polesine Era novembre anche allora; l’Italia usciva dalla lunga notte del fascismo e della guerra che aveva portato la povertà a milioni di contadini, operai, impiegati e aveva investito un territorio dissestato, con le valli diboscate ed esposte all'erosione, un'Italia in cui gli organi dello stato, appena diventato Repubblica, stentavano a mettersi in moto in maniera moderna.
In quel novembre 1951 nella valle padana piovve per giorni e giorni e gli abitanti dell'Emilia e del Veneto si accorsero ben presto che il livello del Po e dei suoi affluenti saliva e rasentava gli argini e il mare non riceveva la grande massa di acqua portata dai fiumi; il "grande fiume", cantato da Bacchelli nella trilogia del “Mulino del Po”, superò e sfondò i fragili argini e allagò migliaia di ettari e le case e le città: il 14 novembre fu allagata Rovigo. Su questo mare di fango e acqua si fermò l'Italia che veniva informata, ora per ora, dalla radio (non c'era la televisione); la consapevolezza del disastro e un grande dolore collettivo colpì tutti i cittadini: si mobilitò una grande gara di solidarietà nazionale e civile, che ebbe uguali forse solo nel 1966 in occasione dell'alluvione di Firenze.
Nelle piazze d'Italia si raccoglievano indumenti e medicinali per gli alluvionati; molti si mossero verso le zone sommerse dall'acqua per regalare, sugli argini o nei campi, qualche ora di lavoro sottratta alle famiglie e alle officine. Che cosa sia stato quell'autunno lo racconta, fra l’altro, il film di Duvivier, "Il ritorno di Don Camillo", che viene ancora trasmesso da qualche televisione: la sequenza finale offre un quadro dell’Italia della solidarietà, di quella che potrebbe di nuovo essere l'Italia se fosse ancora dominata dai piccoli, grandi, coraggiosi valori di allora. Purtroppo negli anni successivi, nell'era del miracolo economico, delle "mani sulla città" e sul territorio, non ci fu tempo né voglia di spendere soldi per prevenire future alluvioni con opere di rimboschimento, di difesa del suolo, di sistemazione degli alvei e degli argini dei fiumi.
E così continuarono a franare le valli della Calabria e della Basilicata, a cui i governi cercavano di far fronte con "addizionali" prelevate dai salari e con finti rimboschimenti da parte di disoccupati promossi precari forestali; e così si arrivò alla frana del Vajont del 1963 (autunno anche allora) e all'alluvione di Firenze.