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Era una bella mattina estiva di sabato,quel 10 luglio di trent’anni fa, quando dal camino di una fabbrichetta di Meda, a nord di Milano, la Icmesa, uscì un getto di polvere bianca che, trascinata dal vento, si diresse lentamente verso sud, e ricadde al suolo nel territorio del vicino Comune di Seveso.
Ben presto gli animali domestici morirono e sulla faccia dei bambini che giocavano all'aria aperta e vennero a contatto con la "nube" comparvero delle pustolette.
Ci vollero alcuni giorni per ricostruire l'andamento dell'incidente.
La Icmesa ( una società di proprietà della Givaudan, a sua volta appartenente alla multinazionale svizzera Hoffmann-La Roche) fabbricava composti chimici organici, intermedi per la produzione di cosmetici ed erbicidi.
Fra questi composti veniva prodotto il triclorofenolo, per reazione del tetraclorobenzolo con idrato di sodio a caldo dentro un "reattore".
La sera del venerdì 9 luglio 1976, alla fine della settimana di lavoro, nel reattore restò la miscela che avrebbe dovuto essere trasformata, il lunedì successivo, in triclorofenolo.
La massa era raffreddata con una corrente di acqua, ma la mattina di sabato 10 luglio il raffreddamento si interruppe e la massa si scaldò a circa 300 gradi, una temperatura molto elevata; la pressione risultante provocò la fuoriuscita dal reattore di una parte del contenuto, triclorofenato di sodio e idrato di sodio e "altre cose", sottoprodotti della reazione.
Fra questi sottoprodotti ben presto ci si accorse che era presente una sostanza chiamata "diossina", in realtà la 2,4,7,8-tetraclorodibenzo-para-diossina (o TCDD), una delle molte "diossine" clorurate che si formano quando molti composti organici e il cloro vengono a contatto ad alta temperatura.
La "diossina di Seveso" era la più tossica di tutte le diossine ed era ed è responsabile della comparsa di tumori e di cloracne.
I rapporti fra triclorofenolo e diossina erano ben noti: nel 1970 erano stati descritti i danni alla salute verificatisi nelle persone esposte al contatto con alcuni erbicidi (in particolare il 2,4-D, o acido 2,4-dicloro-fenossiacetico, e il 2,4,5-T, o acido 2,4,5-tricloro-fenossiacetico) che gli americani aveva no versato in grandi quantità nel Vietnam per distrug gere la giungla nella quale si nascondevano i partigiani Vietcong, e per distruggere i campi di riso, unico alimento per la popolazione che collaborava con i partigiani.
La tossicità era dovuta al fatto che i due erbicidi, fabbricati partendo dal triclorofenolo, erano stati prodotti usando, per risparmiare soldi, triclorofenolo impuro, contaminato con diossina; la diossina era finita quindi nei prodotti spruzzati sulla giungla e nel corpo delle persone che erano venute a contatto con le foglie o col terreno.
Per inciso l'intossicazione dovuta alla diossina presente in quelle vere e proprie armi chimiche americane colpì anche i soldati americani che percorsero il terreno contaminato, tanto che molti reduci dal Vietnam hanno fatto causa al governo americano per essere risarciti dai danni sofferti a causa del contatto con la diossina sparsa dai loro stessi camerati !
La storia era stata raccontata nel 1970 nella rivista "Ecologia", diretta da Virginio Bettini, e dal 1970 l'uso agricolo dei due erbicidi 2,4-D e 2,4,5-T era stato vietato anche in Italia. D'altra parte erano stati osservati danni biologici anche in seguito al contatto con esaclorofene, un disinfettante prodotto dal triclorofenolo e il cui uso è stato poi vietato.
Nel 1971 sulla rivista inglese "Nature" era stato spiegato che la diossina si forma quando il triclorofenolo viene scaldato a temperature superiori a 160 gradi; almeno in altri due incidenti industriali, in Germania e in Inghilterra, gli operai erano stati esposti a intossicazione dovuta a diossina.
(alcune notizie si possono trovare in: B. Leoci, G. Nebbia e L. Notarnicola, "Il caso della diossina: problemi merceologici e umani", Quaderni di Merceologia (Bologna), 16, (2), 177-209 (maggio-agosto 1977))
L'incidente di Seveso si tradusse in una vera catastro fe umana e sociale per un insieme di ignoranza e inde cisione degli amministratori locali, delle autorità sanitarie nazionali e anche di alcuni "scienziati". Nell'indifferenza generale --- la "patria" era incollata davanti ai televisori per seguire le Olimpiadi di Montreal --- la popolazione di Seveso rimase sola, spaventata, stordita, fra stupide minimizzazioni e incertezze. Le donne esposte alla diossina avrebbero avuto dei figli con malformazioni genetiche ? che cosa sarebbe successo delle case e dei campi ? E ancora: dove sareb be andata a finire la diossina caduta sul suolo ? Si sarebbe dispersa nelle falde idriche del sottosuolo ? fin dove sarebbe arrivata ?
Ci vollero molti giorni prima di avere i risultati delle analisi della concentrazione della diossina sul suolo, nelle acque, sulle pareti delle case, all'inter no dello stabilimento, prima di poter delimitare le zone più contaminate da quelle meno colpite. La TCDD è pochissimo solubile in acqua e si era quindi fermata negli strati superficiali del suolo; come avrebbe dovuto essere fatta una bonifica ? Scienziati e inventori si affannarono a proporre improbabili sistemi per distruggere la diossina, naturalmente senza succes so.
La popolazione della zona contaminata fu fatta sfolla re; nella gran folla di burocrati, politici e affari sti, poche persone furono veramente vicine, "con amore", al "popolo di Seveso", e fra queste voglio ricordare Laura Conti, scomparsa alcuni anni fa (nel maggio 1993), che, da donna, da medico e da consigliere comunista regionale della Lombardia, raccolse la voce dei bambini, delle donne e degli uomini di Seveso e alla loro umana paura dedicò delle pagine bellissime. L’archivio di Laura Conti è stato amorevolmente raccolto dalla Fondazione Micheletti di Brescia che ha curato la pubblicazione dell’inventario nel sito www.fondazionemicheletti.it (da qui andare a:”altronovecento” n. 8)
Col passare del tempo i dirigenti dello stabilimento furono processati, si cercò di accertare le responsa bilità, di definire l'entità monetaria dei danni e dei risarcimenti. Una parte della zona di Seveso fu abbandonata per sempre e gli abitanti furono trasferiti altrove, in definitiva in modo economicamente abbastan za vantaggiosa. La terra e il materiale contaminato e le parti di mac chinari e di edifici furono sepolti in una grande fossa nel terreno, recintata da una rete metallica e su cui furono piantati alberi, una specie di "parco nazionale dei veleni" di cui peraltro si è dimenticata quasi l'esistenza. Delle strutture dell'Icmesa è rimasto solo un muro.
Una parte della materia contenente diossina fu trasportata all'estero, con una delle solite commedie italiane di strani camion che vanno e vengono, con camionisti che non sanno, o fanno finta di non sapere, che cosa trasportano, diretti a qualche discarica o incenerito re, che nessuno sa dove sia, così come sembra che nessuno sappia esattamente che fine ha fatto la dios sina. Fu nominato un "commissario speciale" per Seveso che amministrò i soldi dei risarcimenti, raccolse i dati sulla salute delle persone esposte, i risultati delle analisi chimiche effettuate. Il tutto è finito in un grande archivio che nessuna sa esattamente dove sia. L'unico sottoprodotto positivo della vicenda di Seveso fu un forte progresso nelle conoscenze chimiche sulle diossine, la cui presenza fu scoperta in moltissimi altri materiali, nei fumi degli inceneritori dei rifiu ti solidi, nei gas che si formano bruciando il cloruro di polivinile o i bifenili policlorurati PCB,, in molti residui industriali.
Il ricordare, a tanti anni di distanza, questo inciden te non è banale. Per la prima volta, su una scala senza precedenti, l'opinione pubblica italiana, europea e mondiale si rese conto che il territorio è cosparso di fabbriche e fabbrichette che maneggiano e trattano e trasformano sostanze pericolose, senza che nessuno degli abitanti vicini e spesso nessuno dei pubblici amministratori, sappia che cosa contengono, che cosa producono, che cosa occorre fare in caso di incidente. La Comunità europea decise di emanare delle norme per regolare la presenza delle industrie a rischio. La "direttiva Seveso" --- così fu chiamata, e dalla prima versione del 1982 ne sono state emanate altre due, e la “Seveso III” è entrata in vigore in Italia alla fine del 1995 ---suddivise le industrie in due classi, a rischio (classe B, oggi dette “articolo 6”) e ad alto rischio (classe A, oggi dette “articolo 8”), sulla base del tipo e della quantità delle sostanze tossiche e pericolose che ciascuna contiene.
Poiché le industrie a rischio sono soggette a certe procedure burocratiche, le industrie cercano di evitare di rientrare nella classe dell’”articolo 8”. Solo per fare un esempio: se un’industria chimica contiene 110 tonnellate di bromo è classificata ad alto rischio e tenuta ad una procedura di redazione di un “rapporto di sicurezza” e a vari vincoli, anche costo si; se ne contiene 90 tonnellate rientra nella classe B, è tenuta a presentare solo una "notifica" ed è sottoposta a vincoli molto meno rigorosi. Il che sa un po' di burletta.
Ogni sindaco dovrebbe informare la popolazione sui processi che si svolgono in ciascuno degli stabilimenti del Comune, sulle materie pericolose contenute e do vrebbe predisporre un piano di emergenza in caso di incidenti. In pratica i dati sui processi e sui materiali presenti nelle varie fabbriche sono tenuti segreti, i piani di emergenza sono chiusi nei cassetti e la popolazione continua a non sapere niente, per cui quando succede un incidente si verificano scene di disperazione, paura e incertezza.
Un importante sottoprodotto degli incidenti di Seveso e di quello, del settembre dello stesso anno 1976, di Manfredonia, fu la nascita, al fianco dei movimenti ambientalisti o ecologisti, di una “ecologia del posto di lavoro” con una propria associazione, “Ambiente e Lavoro”, Via P. Finzi 15, 20126 Milano, www.amblav.it, nata venti anni fa, nel 1986 proprio al fine di diffondere la conoscenza della direttiva Seveso, delle industrie a rischio, della loro localizzazione, e delle sostanze pericolose in esse contenute: il lavoro dell’associazione è continuato con la pressione per ottenere leggi per una maggiore sicurezza sul lavoro: un terreno di incontro degli interessi e dei diritti dei cittadini che usano le merci e di coloro che le fabbricano (che spesso poi sono le stesse persone).
Comunque i trent’anni che ci separano da Seveso, benché costellati di innumerevoli incidenti industriali, non hanno insegnato niente. I governanti e gli amministra tori locali hanno paura di disturbare eccessivamente le industrie divulgando informazioni che mettano in guar dia le popolazioni sui rischi che le circondano. Esiste inoltre una diffusa ignoranza sui processi pro duttivi, sulla chimica e tecnica industriale, benché l'industria sia fonte, oltre che di rischio, anche di lavoro e di reddito per le famiglie e di merci utili per la nostra vita.
E' possibile avere occupazione, lavoro, beni materiali, con minori rischi e pericoli, con minori inquinamenti ? Certamente è possibile. Occorre un cambiamento della cultura industriale: gli imprenditori, terrorizzati dalle possibili proteste delle popolazioni e degli ambientalisti, fanno di tutto per presentare di se una immagine melensa e ottimista, per illustrare le proprie merci col linguaggio della più banale pubblicità, tenendo ben nascoste le uniche cose importanti: quali materie entrano in uno stabili mento, come vengono trasformate, quali merci escono, quali scorie si formano. Senza rendersi conto che la fiducia della popolazione si conquista soltanto con la verità, spiegando come la produzione di merci si ottenga col movimento di mate rie, più o meno pericolose, ma anche con l'innovazione, la cultura, l'orgoglio di lavorare bene, al di là del fare i soldi.
Occorre un cambiamento della cultura dei lavoratori che devono essere aiutati a conoscere e capire i materiali che trattano, le precauzioni che devono essere prese, i pericoli a cui sono esposti e a cui espongono, con pratiche irrazionali, la popolazione esterna, che è poi rappresentata dalle loro mogli e figli.
Occorre la diffusione di una cultura merceologica nei pubblici amministratori che, nel rilasciare autorizzazioni, nel tenere sotto controllo, come è loro dovere, le fabbriche circostanti devono essere in grado di conoscere o di farsi spiegare che cosa ciascuna tratta, trasforma e produce.
Solo così nei casi, non infrequenti, di incidenti, è possibile avvertire la popolazione delle cose che devono essere fatte, delle precauzioni che occorre prendere: la paura, le reazioni "emotive", sono figlie dell'ignoranza, del non essere informati.
Purtroppo ben pochi sanno che cosa si produce in quel capannone, in quello stabilimento, che cosa esce da quel camino, che pure vediamo la fuori dalla finestra, alle periferie delle città.
Un bell'impegno delle associazioni ambientaliste potrebbe essere rivolto al ricostruire la geografia merceologica del territorio, a cominciare da quello vicino a casa nostra. Che cosa si produce, che cosa si è prodotto in passato, quali scorie sono rimaste depo sitate, nei decenni, in qualche discarica di cui si è perfino persa la memoria.
Alla fine di marzo 1996 si è tenuto, presso la Fonda zione Micheletti di Brescia, un interessante seminario su "Industria, tecnica e ambiente nell'età dell'indu strializzazione", col fine di ricostruire non una storia "ecologica" delle industrie, obiettivo ancora molto lontano, ma almeno alcuni episodi che consentono di riconoscere inquinamenti, incidenti, depositi di residui, suscettibili di emergere dal sottosuolo e danneggiare, anche a distanza di tempo, la popolazione attuale.
In quell'occasione è stato anche presentato l'interessante libro di Luigi Mara, Marcello Palagi e Gianni Tognoni,"Da Bhopal alla Farmoplant. Crimini e chimica di morte" (Ecoapuana editore, Viale XX settembre 247, Carrara).

Perché non ci siano più Seveso occorre una svolta nelle leggi, nella gestione del territorio, nel rispetto delle persone, ma soprattutto un cambiamento di cultura: per ora non vi sono segni di tale cambiamento, che possiamo ottenere solo con una ripresa della lotta per la difesa della salute e della natura, che sono poi la stessa cosa.